tratto da www.innernet.it/
Nella vita dell’astronauta Story Musgrave si fondono lo spazio e lo spirito, la natura e la tecnologia, una grande concretezza e una concezione trascendentale della vita sulla Terra.
Alla soglia di sessanta anni, l’astronauta F. Story Musgrave aveva passato nello spazio più tempo di qualsiasi altro americano: cinque missioni per un totale di 858 ore. All’apparenza, sembrerebbe che tutta la sua vita sia passata a preparare questo mese e sei giorni di magia.
“È un cammino splendido e adatto a me”, dice, “Ma avrei percorso qualsiasi altro cammino con lo stesso senso estetico e spirituale. In tutti i casi, mi sarei sempre chiesto: qual è il nostro posto nell’universo e cosa vuol dire essere un uomo? Ho usato tutto ciò che ho fatto nella vita per rispondere a questa domanda”.
Il dr. Story Musgrave è tanto impressionante dal vivo quanto sulla carta. Padre di sei figli (di cui uno già deceduto) spende la maggior parte del suo tempo libero dedicandosi al gioco degli schacchi, al volo, al giardinaggio, alla critica letteraria, ai microcomputer, alla fotografia, alla lettura, alla corsa, al nuoto sott'acqua ed al volo con il parapendio. Ha ottenuto tutte le qualificazioni possibili per svolgere la professione di istruttore di volo per voli civili e militari. Ulteriormente è un esperto paracadutista avendo eseguito oltre 500 lanci in volo libero di cui oltre 100 di collaudo, particolarmente per ottenere risultati in campo aerodinamico. Scienziato-astronauta, chirurgo, dottore aerospaziale e fisiologo; laureato in chimica, matematica, informatica e lettere; esperto in 160 tipi di velivoli, tra cui jet, aliante e paracadute. Calvo, portamento da marine, un impeccabile blazer della marina e pantaloni grigi, egli non passa inosservato in mezzo alla folla.
Nella vita dell’astronauta Story Musgrave si fondono lo spazio e lo spirito, la natura e la tecnologia, una grande concretezza e una concezione trascendentale della vita sulla Terra.
Alla soglia di sessanta anni, l’astronauta F. Story Musgrave aveva passato nello spazio più tempo di qualsiasi altro americano: cinque missioni per un totale di 858 ore. All’apparenza, sembrerebbe che tutta la sua vita sia passata a preparare questo mese e sei giorni di magia.
“È un cammino splendido e adatto a me”, dice, “Ma avrei percorso qualsiasi altro cammino con lo stesso senso estetico e spirituale. In tutti i casi, mi sarei sempre chiesto: qual è il nostro posto nell’universo e cosa vuol dire essere un uomo? Ho usato tutto ciò che ho fatto nella vita per rispondere a questa domanda”.
Il dr. Story Musgrave è tanto impressionante dal vivo quanto sulla carta. Padre di sei figli (di cui uno già deceduto) spende la maggior parte del suo tempo libero dedicandosi al gioco degli schacchi, al volo, al giardinaggio, alla critica letteraria, ai microcomputer, alla fotografia, alla lettura, alla corsa, al nuoto sott'acqua ed al volo con il parapendio. Ha ottenuto tutte le qualificazioni possibili per svolgere la professione di istruttore di volo per voli civili e militari. Ulteriormente è un esperto paracadutista avendo eseguito oltre 500 lanci in volo libero di cui oltre 100 di collaudo, particolarmente per ottenere risultati in campo aerodinamico. Scienziato-astronauta, chirurgo, dottore aerospaziale e fisiologo; laureato in chimica, matematica, informatica e lettere; esperto in 160 tipi di velivoli, tra cui jet, aliante e paracadute. Calvo, portamento da marine, un impeccabile blazer della marina e pantaloni grigi, egli non passa inosservato in mezzo alla folla.
Ho incontrato Story Musgrave a un party per gli astronauti dello Hubble, allo “Space Telescope Science Institute” (Istituto Scientifico Telescopio Spaziale). Per esperienza, anzianità di servizio e profondità della ricerca intellettuale, Story è nelloSpace Program colui che più si avvicina al capitano di Star Trek Jean-Luc Picard. Ma, saggiamente, egli dà l’impressione di un semplice pilota collaudatore militare, tranquillo e imperturbabile, con una strascicata pronuncia del Kentucky e l’immancabile «understatement».
Da quando sono cominciate le missioni spaziali con equipaggio umano, molti astronauti hanno vissuto trasformazioni spirituali di cui hanno parlato volentieri. Dopo vari tentativi andati a vuoto di intervistare uno di loro, ho ricevuto una risposta entusiasta da Story, ma l’istante successivo egli fu risucchiato da un’altra attività.
Allora, feci in modo di partecipare alla conferenza sulla Missione di riparazione deltelescopio spaziale Hubble, dove Story avrebbe illustrato la missione a un pubblico di ingegneri spaziali, analisti di computer ed esperti di telemetria, ovvero ai colleghi dalla cui bravura dipendeva la sua vita nello spazio.
Story mostra la sua prima diapositiva al pubblico: un bambino sulla spiaggia, accosciato tra la spuma dei frangenti, che osserva affascinato una manciata di sabbia bagnata. “Questa è la ragione fondamentale per essere nello spazio: la curiosità umana”, dice, “la meraviglia, lo stupore. È qualcosa che riguarda il senso stesso dell’essere uomini”.
Voglio sapere che effetto ha avuto lo stare nello spazio nel resto della vita di Story. Oltre all’ovvio mutamento di prospettiva determinato dai voli spaziali, sono curiosa di sapere qualcosa sull’addestramento di un anno e mezzo che ha preceduto i cinque giorni di camminate spaziali per effettuare le riparazioni. Era forse qualcosa di simile ai vari rituali della tradizione zen, finalizzati a farci passare dal “pilota automatico” allo stato di pura e semplice presenza?
L’addestramento, mi racconta Story, è qualcosa di molto più complesso della semplice esecuzione consapevole di determinate operazioni. Consiste nella definizione, la pratica e il perfezionamento in Terra delle operazioni, oltre che nella programmazione dell’interfaccia tra chi sta nello spazio e chi sulla Terra, al Mission Control. Ma tutto è complicato dal fatto che non esistono sulla Terra ambienti in grado di riprodurre esattamente l’atmosfera fredda, silenziosa, priva di peso e di aria nella quale andranno effettuate le riparazioni sul telescopio.
Story svolge questo lavoro dal 1967, quando smise di essere un chirurgo post-traumatico e un professore di medicina e fisiologia aerospaziale, per entrare nella NASA. Tra le altre cose, ha contribuito a progettare e creare gli strumenti e le procedure della prima camminata spaziale nel 1983, quando lui e l’equipaggio di uno Shuttle lanciarono un satellite per le comunicazioni. Nel 1976 ha collaborato alla progettazione dello Hubble, e nel 1992 è stato messo a capo della missione di riparazione dello Hubble, come responsabile scientifico.
Due aspetti della missione di riparazione sono particolarmente difficili, per quanto riguarda le procedure da provare sulla Terra. La tuta spaziale e lo zaino pesano 150 chili, ma nello spazio ogni cosa, inclusi gli astronauti all’interno delle loro tute, galleggia priva di peso. Quindi, come simulare il galleggiamento di un astronauta di 220 chili, con un oggetto di 320 chili e un elaborato set di strumenti, di fronte a un telescopio di 12 metri? “Non abbiamo a disposizione una stanza dove puoi entrare, girare un interruttore e cancellare la gravità”, dice Story. “Usiamo l’acqua: indossiamo la tuta e vi applichiamo un peso tale che non galleggiamo, ma nemmeno andiamo a fondo”.
Le prove con i vestiti vengono fatte nella vasca d’acqua del Centro Spaziale L. B. Johnson di Houston. Per simulare l’atto di spingere oggetti pesanti in assenza di gravità, vengono usati pavimenti particolari, una sorta di equivalente 3D dei tavoli diair hockey. “Ho sei gradi di libertà e sposto 320 chili con la punta delle dita. Dita e chili di forza: questo è quello che impari nel simulatore”.
Story deve fare pratica levando il coperchio della macchina fotografica Wide FieldPlanetary per attaccare lo specchio di quest’ultima al cammino ottico dentro il telescopio, una volta installato. “Questa veniva considerata la parte più difficile della missione”, dice Story, “e l’ho ripetuta centinaia di volte. Ogni volta che passavo davanti al modello a scala naturale, lo levavo e lo rimettevo, lo levavo e lo rimettevo. L’ho fatto tantissime volte. Mentre facevo questo, non avevo pensieri. Pratica, pratica, pratica… Era un momento critico. Era l’unico punto in cui avevamo davanti al viso una superficie ottica di quindici centimetri. Se toccavi quello specchio, l’immagine che dallo Hubble sarebbe arrivata sulla Terra avrebbe avuto le tue impronte digitali, e questo non andava bene”.
Alla fine, gli astronauti fanno pratica nella camera sotto vuoto, dove l’aria può essere aspirata ed è possibile verificare la presenza di fori nella tuta. La temperatura può essere abbassata fino a quella effettivamente esistente nello spazio, -170°C, quando il telescopio viene schermato dai raggi solari, in modo che i suoi delicati componenti non siano esposti al momento dell’apertura delle porte (nello spazio, il calore viene trasportato solo dalle radiazioni: se non sei di fronte alla Terra o al sole, e se non sei vicino allo Shuttle, non ti arriva alcun calore).
Story riassume l’addestramento: “Davanti a te hai cinque giorni di lavoro lassù nello spazio. È come un balletto. Non stiamo parlando di ingegneria, di ottica. Tutte queste cose sono alle tue spalle. Il lavoro che devi fare è primitivo: spostare oggetti, azionare meccanismi, disattivare collegamenti elettrici. Devi coreografare l’intera cosa, la posizione di ogni dito e di entrambi i piedi, le posizioni del corpo, le forze, tutto quanto. Siete tu e 300 strumenti. Fai appello alle prove sott’acqua e in ogni altro ambiente, ma ciò che devi fare lassù esiste solo nella tua testa. Questo processo mentale è la ragione grazie alla quale la missione ha funzionato: unisci tutti i dettagli, al livello più infinitesimale possibile, in tutti questi diversi ambienti, e poi con l’immaginazione, la mente, elabori queste esperienze e le tiri fuori al momento giusto”.
Dopo che uno Shuttle è stato riempito di carburante per il decollo, tutto il personale abbandona il Centro Spaziale Kennedy, eccetto gli astronauti e pochi tecnici che allacciano loro le cinture di sicurezza, due ore prima del conto alla rovescia. Story spiega che, poiché lui occupa il posto centrale, è l’ultimo a entrare. Egli può restare all’esterno, a 600 metri dal suolo, per un’ora intera, prima di cominciare i controlli e tutte le altre procedure dell’ultimo momento.
“Questo, per me, è uno dei momenti più belli del volo spaziale. Godi di un punto di vista privilegiato sulla natura e la tecnologia. Di fronte a te c’è un veicolo vero, vivo. È immenso, gigantesco, vivente. Le pompe sono in azione, il gas sta uscendo, le cose stanno accadendo. E la natura: la spiaggia, i pellicani, i gabbiani, gli alligatori. Tutto è natura. È una vista da nido dell’aquila, altissima. Le due tensioni del pianeta: la tecnologia e la natura. È un’occasione per avere un’esperienza esistenziale, per pensare a cosa sta succedendo, a quello che stai per fare davvero”.Occorrono otto terribili minuti e mezzo per salire dal Centro Spaziale Kennedy, in Florida, all’orbita iniziale sopra l’atmosfera terrestre. “Non mi piace il decollo”, ammette Story, “vorrei che fosse possibile qualcosa tipo «Tirami su, Scotty». Sei sdraiato sulla schiena, guardi in alto e non vedi altro che il cielo. Vibrazioni, rumori e paura che stai per morire”. Il rumore raggiunge i 137 decibel: il suono di un jet che decolla nelle vicinanze. Qualsiasi suono più forte non produce ascolto, ma dolore.
Il rumore diminuisce quando i razzi propulsori si staccano, ma il disagio fisico cresce finché una pressione di 3G incolla l’equipaggio ai sedili. Finalmente, il motore di lancio si spegne, lo Shuttle entra in orbita e in caduta libera. Gli astronauti, lo Shuttle e il telescopio stanno cadendo verso la Terra, ma quest’ultima si allontana da loro alla stessa velocità, per via della sua forma sferica. Quindi, gli astronauti e il telescopio sono sempre a 600 km dalla Terra, e viaggiano a una velocità di 30.000 km orari intorno a essa. Ma la sensazione è che gli astronauti e il telescopio stiano galleggiando, mentre la Terra ruota sotto di loro. Libri, matite e tutto ciò che non è stato assicurato con cinghie galleggia magicamente nell’aria. Il rumore e il disagio sono spariti.
A questa altezza il cielo è sempre nero, anche nei 45 minuti di luce diurna in cui lo Shuttle è sopra la faccia illuminata della Terra. A causa della luce riflessa, comunque, le stelle sono facilmente visibili solo quando lo Shuttle è sopra il lato oscuro. Per poter sfruttare al massimo il proprio corpo, l’equipaggio segue un programma basato sulle 24 ore terrestri.
Story paragona l’attesa dell’avvicinamento allo Hubble a quella per un evento olimpico: “Hai lavorato tantissimo per raggiungere un livello soddisfacente, e ora è arrivato il momento buono. Ci siamo”. Quando abbandona lo Shuttle per la sua prima camminata spaziale, si chiede: “Sono venti anni che lavoro affinché lo Hubble funzioni. Nella mia immaginazione, sto pensando alla coreografia. Va tutto bene?”.
Le riparazioni progrediscono: “È qualcosa di assolutamente magico. Il balletto più bello è fatto solo di polsi e mani. Ecco cosa impari nella caduta libera. Semplicemente, tocchi. Tocchi e osservi”. Anche quando le coppie di astronauti stanno lavorando intensamente durante una passeggiata spaziale, lo splendido sfondo dietro lo Hubble e lo Shuttle cattura la loro attenzione. “Non stai soltanto contando quante volte hai avvitato quel bullone. Con la coda dell’occhio stai vedendo, per esempio, la Shark Bay nell’Australia occidentale. La osservi per bene, e questo non interferisce in alcun modo con il tuo lavoro. Un luogo fantastico, baie a pettine create da onde alte otto metri. Nel nostro Paese non esistono. Questo lavoro richiede grandi sforzi, ma quello che secondo è me veramente meraviglioso è la capacità di lavorare a livelli infinitesimali e allo stesso tempo galleggiare in altri mondi. Avere i piedi per terra ed essere eterici; essere entrambe le cose o sapere quando essere l’una e quando l’altra: penso che questo sia il modo giusto di vivere”.
Alla quinta passeggiata spaziale, Story e Jeff Hoffman devono sostituire l’unità elettronica Solar Array Drive, un’operazione che non è stata concepita per essere effettuata nello spazio. “C’erano delle minuscole viti sciolte, di due o tre millimetri, che in assenza di gravità non facevano che volteggiare nell’aria”. Con una sola mano, per di più coperta da un guanto, Story cominciò a inseguirle. Ci vollero tre ore. “Questo lavoro fu al limite delle mie possibilità. La vittoria più grande fu quando mi chiamarono dicendomi che l’unità stava funzionando. Avreste potuto sentirmi fin sulla Terra… Non c’era bisogno della radio!”.
Story conclude raccontando l’altro aspetto magico dello stare nello spazio: la vista dal finestrino. “Quando hai una pausa, corri al finestrino. È un momento emotivo; è come stare in chiesa”.
Ci vengono mostrati fantastici panorami di nuvole, correnti oceaniche, catene montuose, vulcani, barriere coralline, crateri meteoritici, delta di fiumi, laghi, uragani, dune di sabbia, canali dendritici di fiumi, tempeste e aurore. Dal racconto di Story è evidente che egli ha guardato a lungo e intensamente la Terra, e con grande affetto.
Vediamo la nostra galassia, la Via Lattea, di profilo nel cielo estivo. “Stiamo cominciando a pensare a tutti noi come ad abitanti di un solo pianeta”, dice Story. “Alla fine, ci considereremo creature del sistema solare. Al di là, c’è la nostra galassia. Quella è la nostra casa”.
E l’ultima diapositiva, un tramonto su Houston: “E questa è la mia casa. Torno dal lavoro e mi trovo di fronte a questo. Ovunque guardi… L’universo intero è la nostra benedizione. Tutto ciò di cui hai bisogno è l’atteggiamento di un bambino. Dobbiamo fermarci, toccare, apprezzare. Apprezzare ciò che ci è stato dato e il processo di cui siamo parte”.
Più tardi, ho intervistato Story al Centro Spaziale di Houston. Mentre salivamo con l’ascensore, egli è stato assediato da una mezza dozzina di turisti con varie richieste e commenti. Mi è rimasto impresso un bambino che guardava Story a bocca aperta, come se non credesse ai suoi occhi. Arriviamo al Club, una balconata privata affacciata sull’atrio di ingresso, riservata agli astronauti e gli ufficiali della NASA. Per cominciare, chiedo a Story di parlarmi della sua carriera medica, che egli ha praticato in modo intermittente: «Che genere di chirurgia praticavi?».
«Chirurgia post-traumatica: proiettili, coltelli, incidenti d’auto. Sono andato a finire là perché era un lavoro che facevo saltuariamente, due o tre giorni al mese. Prendevo chiunque passasse attraverso la porta».
Gli chiedo se questa è stata una conseguenza della sua passione per la meccanica (egli ha cominciato a lavorare all’età di cinque anni con i trattori nella fattoria di famiglia). «Era simile a quello che stavo facendo nell’aerospazio. Liste di controllo, strumenti, cose meccaniche», risponde. «Si tratta semplicemente di essere dei bravi idraulici. Tuttavia, è un lavoro importantissimo. Devi muovere il sangue, l’aria. Punto. Una volta che hai finito con l’aria e il sangue, cominci a intervenire nel lungo termine. È sopravvivenza pura e semplice». Story non pratica più la chirurgia, anche perché, mentre si stava esercitando nella camera sotto vuoto, ha avuto dei sintomi di congelamento.
Quale parte gioca la sua paura della morte nelle missioni spaziali? «Essa arriva quando le cinture di sicurezza sono state allacciate e il conto alla rovescia è cominciato», risponde; «Per me è semplicemente una paura boia. Non mi piace correre tanti rischi. Vorrei avere un veicolo sicuro come Apollo, ma me ne devo fare una ragione: questo è ciò che devo fare per salire lassù.
Ho molto caro ciò che ho qui. Non voglio perderlo. Non ho paura di morire, ma la vita mi piace tantissimo e ho ancora tantissime cose da fare. È un discorso pratico; ci sono delle cose da finire. Ora non sarebbe il momento giusto per morire».
Congetturiamo su cosa accada dopo la morte e quale sia il significato delle esperienze di quasi-morte. Story afferma: «Anche le esperienze di quasi-morte in cui non hai subito ferite ti costringono a riflettere intensamente. Cominci a riconsiderare le cose. Ma io sostengo che dovremmo sempre vivere in quel modo. Io vivo con la morte tutto il tempo. Non è qualcosa di morboso o di deprimente. È solo un fatto. Noi stiamo andando verso la morte».
E qual è la vita spirituale di un uomo che ha visto tantissime volte la Terra dallo spazio?
«È una nuova esperienza della natura. Ti rende più umile. È armonia. È la Terra e il cielo. Ed è magia, ciò che vedi con gli occhi, e caduta libera, gravità zero. E il lavoro che devo fare per avere questa esperienza, è qualcosa di estremamente ricco.
Non è che ho avuto un’epifania o qualcuno mi ha dato un libro dove sono scritte tutte queste cose. La mia ricerca spirituale è molto intensa. Qual è un’etica giusta? Quali dovrebbero essere i nostri obiettivi? Questa è la mia ricerca, e il 99% della mia motivazione. Ecco perché di notte studio materie umanistiche.
Sto cercando, e la mia indagine è in costante evoluzione. Devo andare fuori nel mondo, dentro la natura. Devo cercare Dio o gli dei. Quindi, lo spirito mi viene incontro, ma devo cercarlo. Definirlo. Non mi viene portato su un vassoio d’argento, sai. Devo lavoraci su, metabolizzarlo. Si capisce cosa voglio dire?».
Rido: «Sì», e chiedo se c’è qualche pratica spirituale che ha provato. No, nelle sue letture si è imbattuto in qualcuna di esse e ha riconosciuto cose che già fa, come il sogno lucido. E che ne pensa di una pratica formale di meditazione? Story sa che sono un’insegnante di meditazione buddista e nell’intervista ha acconsentito a parlare di queste cose. Non è sicuro riguardo una pratica formale, ma accenna alle meraviglie che riesce a ottenere con la sua mente, al fatto che è in grado di raggiungere una mente completamente silenziosa, una lavagna bianca. Spiego che la meditazione buddista è diversa, che si avvicina a ciò che deve aver fatto durante le camminate spaziali.
Story ci pensa su: «Ma in tutti questi discorsi lo sfondo contestuale è sempre presente. Se consideri il tiro con l’arco zen, la pittura zen, il Tao… Ho letto quei libri. Quando penso al mio lavoro sull’Hubble come a un’arte, quando penso di fare un’arte del mio lavoro, sono presenti anche quelle cose lì».
Gli domando se c’è qualche attività quotidiana che lo porti più a contatto con la sua spiritualità, qualcosa che fa consapevolmente e di cui altrimenti sentirebbe la mancanza: «Scrivere, comporre poesie, qualsiasi sforzo creativo è molto vicino alla spiritualità. L’esercizio fisico è un’altra cosa, il sonno… Ma essa è sempre presente. Tutto ciò che ha a che fare con lo spazio; un’immagine dello Hubble. È semplicemente fantastico! O quando sono immerso nella natura, in qualche modo, quando la natura sta operando su di me. Abbandonarmi a qualsiasi tipo di esperienza…
Lo scorso weekend mi trovavo in Arizona. Trovarmi in cima a una collina, correre per la boscaglia, il mesquite, tutto ciò che è in mezzo al deserto… La lepre del Nord America, i coyote e il cervo… E il tramonto lassù, incredibile. Le montagne, il loro colore risso vivo, come lo avevo visto dallo spazio. È portentoso.
La natura ha un ruolo importante, come la creatività. Penso che per essere davvero creativi, bisogna uscire un po’ da se stessi. Devi scendere in luoghi che non frequenti spesso. L’estetica è il modo in cui conosci la verità sulla natura. Non esiste solo la scienza. La bellezza fa parte del mio modo di percepire e conoscere il mondo».
Voglio sapere che effetto ha avuto lo stare nello spazio nel resto della vita di Story. Oltre all’ovvio mutamento di prospettiva determinato dai voli spaziali, sono curiosa di sapere qualcosa sull’addestramento di un anno e mezzo che ha preceduto i cinque giorni di camminate spaziali per effettuare le riparazioni. Era forse qualcosa di simile ai vari rituali della tradizione zen, finalizzati a farci passare dal “pilota automatico” allo stato di pura e semplice presenza?
L’addestramento, mi racconta Story, è qualcosa di molto più complesso della semplice esecuzione consapevole di determinate operazioni. Consiste nella definizione, la pratica e il perfezionamento in Terra delle operazioni, oltre che nella programmazione dell’interfaccia tra chi sta nello spazio e chi sulla Terra, al Mission Control. Ma tutto è complicato dal fatto che non esistono sulla Terra ambienti in grado di riprodurre esattamente l’atmosfera fredda, silenziosa, priva di peso e di aria nella quale andranno effettuate le riparazioni sul telescopio.
Story svolge questo lavoro dal 1967, quando smise di essere un chirurgo post-traumatico e un professore di medicina e fisiologia aerospaziale, per entrare nella NASA. Tra le altre cose, ha contribuito a progettare e creare gli strumenti e le procedure della prima camminata spaziale nel 1983, quando lui e l’equipaggio di uno Shuttle lanciarono un satellite per le comunicazioni. Nel 1976 ha collaborato alla progettazione dello Hubble, e nel 1992 è stato messo a capo della missione di riparazione dello Hubble, come responsabile scientifico.
Due aspetti della missione di riparazione sono particolarmente difficili, per quanto riguarda le procedure da provare sulla Terra. La tuta spaziale e lo zaino pesano 150 chili, ma nello spazio ogni cosa, inclusi gli astronauti all’interno delle loro tute, galleggia priva di peso. Quindi, come simulare il galleggiamento di un astronauta di 220 chili, con un oggetto di 320 chili e un elaborato set di strumenti, di fronte a un telescopio di 12 metri? “Non abbiamo a disposizione una stanza dove puoi entrare, girare un interruttore e cancellare la gravità”, dice Story. “Usiamo l’acqua: indossiamo la tuta e vi applichiamo un peso tale che non galleggiamo, ma nemmeno andiamo a fondo”.
Le prove con i vestiti vengono fatte nella vasca d’acqua del Centro Spaziale L. B. Johnson di Houston. Per simulare l’atto di spingere oggetti pesanti in assenza di gravità, vengono usati pavimenti particolari, una sorta di equivalente 3D dei tavoli diair hockey. “Ho sei gradi di libertà e sposto 320 chili con la punta delle dita. Dita e chili di forza: questo è quello che impari nel simulatore”.
Story deve fare pratica levando il coperchio della macchina fotografica Wide FieldPlanetary per attaccare lo specchio di quest’ultima al cammino ottico dentro il telescopio, una volta installato. “Questa veniva considerata la parte più difficile della missione”, dice Story, “e l’ho ripetuta centinaia di volte. Ogni volta che passavo davanti al modello a scala naturale, lo levavo e lo rimettevo, lo levavo e lo rimettevo. L’ho fatto tantissime volte. Mentre facevo questo, non avevo pensieri. Pratica, pratica, pratica… Era un momento critico. Era l’unico punto in cui avevamo davanti al viso una superficie ottica di quindici centimetri. Se toccavi quello specchio, l’immagine che dallo Hubble sarebbe arrivata sulla Terra avrebbe avuto le tue impronte digitali, e questo non andava bene”.
Alla fine, gli astronauti fanno pratica nella camera sotto vuoto, dove l’aria può essere aspirata ed è possibile verificare la presenza di fori nella tuta. La temperatura può essere abbassata fino a quella effettivamente esistente nello spazio, -170°C, quando il telescopio viene schermato dai raggi solari, in modo che i suoi delicati componenti non siano esposti al momento dell’apertura delle porte (nello spazio, il calore viene trasportato solo dalle radiazioni: se non sei di fronte alla Terra o al sole, e se non sei vicino allo Shuttle, non ti arriva alcun calore).
Story riassume l’addestramento: “Davanti a te hai cinque giorni di lavoro lassù nello spazio. È come un balletto. Non stiamo parlando di ingegneria, di ottica. Tutte queste cose sono alle tue spalle. Il lavoro che devi fare è primitivo: spostare oggetti, azionare meccanismi, disattivare collegamenti elettrici. Devi coreografare l’intera cosa, la posizione di ogni dito e di entrambi i piedi, le posizioni del corpo, le forze, tutto quanto. Siete tu e 300 strumenti. Fai appello alle prove sott’acqua e in ogni altro ambiente, ma ciò che devi fare lassù esiste solo nella tua testa. Questo processo mentale è la ragione grazie alla quale la missione ha funzionato: unisci tutti i dettagli, al livello più infinitesimale possibile, in tutti questi diversi ambienti, e poi con l’immaginazione, la mente, elabori queste esperienze e le tiri fuori al momento giusto”.
Dopo che uno Shuttle è stato riempito di carburante per il decollo, tutto il personale abbandona il Centro Spaziale Kennedy, eccetto gli astronauti e pochi tecnici che allacciano loro le cinture di sicurezza, due ore prima del conto alla rovescia. Story spiega che, poiché lui occupa il posto centrale, è l’ultimo a entrare. Egli può restare all’esterno, a 600 metri dal suolo, per un’ora intera, prima di cominciare i controlli e tutte le altre procedure dell’ultimo momento.
“Questo, per me, è uno dei momenti più belli del volo spaziale. Godi di un punto di vista privilegiato sulla natura e la tecnologia. Di fronte a te c’è un veicolo vero, vivo. È immenso, gigantesco, vivente. Le pompe sono in azione, il gas sta uscendo, le cose stanno accadendo. E la natura: la spiaggia, i pellicani, i gabbiani, gli alligatori. Tutto è natura. È una vista da nido dell’aquila, altissima. Le due tensioni del pianeta: la tecnologia e la natura. È un’occasione per avere un’esperienza esistenziale, per pensare a cosa sta succedendo, a quello che stai per fare davvero”.Occorrono otto terribili minuti e mezzo per salire dal Centro Spaziale Kennedy, in Florida, all’orbita iniziale sopra l’atmosfera terrestre. “Non mi piace il decollo”, ammette Story, “vorrei che fosse possibile qualcosa tipo «Tirami su, Scotty». Sei sdraiato sulla schiena, guardi in alto e non vedi altro che il cielo. Vibrazioni, rumori e paura che stai per morire”. Il rumore raggiunge i 137 decibel: il suono di un jet che decolla nelle vicinanze. Qualsiasi suono più forte non produce ascolto, ma dolore.
Il rumore diminuisce quando i razzi propulsori si staccano, ma il disagio fisico cresce finché una pressione di 3G incolla l’equipaggio ai sedili. Finalmente, il motore di lancio si spegne, lo Shuttle entra in orbita e in caduta libera. Gli astronauti, lo Shuttle e il telescopio stanno cadendo verso la Terra, ma quest’ultima si allontana da loro alla stessa velocità, per via della sua forma sferica. Quindi, gli astronauti e il telescopio sono sempre a 600 km dalla Terra, e viaggiano a una velocità di 30.000 km orari intorno a essa. Ma la sensazione è che gli astronauti e il telescopio stiano galleggiando, mentre la Terra ruota sotto di loro. Libri, matite e tutto ciò che non è stato assicurato con cinghie galleggia magicamente nell’aria. Il rumore e il disagio sono spariti.
A questa altezza il cielo è sempre nero, anche nei 45 minuti di luce diurna in cui lo Shuttle è sopra la faccia illuminata della Terra. A causa della luce riflessa, comunque, le stelle sono facilmente visibili solo quando lo Shuttle è sopra il lato oscuro. Per poter sfruttare al massimo il proprio corpo, l’equipaggio segue un programma basato sulle 24 ore terrestri.
Story paragona l’attesa dell’avvicinamento allo Hubble a quella per un evento olimpico: “Hai lavorato tantissimo per raggiungere un livello soddisfacente, e ora è arrivato il momento buono. Ci siamo”. Quando abbandona lo Shuttle per la sua prima camminata spaziale, si chiede: “Sono venti anni che lavoro affinché lo Hubble funzioni. Nella mia immaginazione, sto pensando alla coreografia. Va tutto bene?”.
Le riparazioni progrediscono: “È qualcosa di assolutamente magico. Il balletto più bello è fatto solo di polsi e mani. Ecco cosa impari nella caduta libera. Semplicemente, tocchi. Tocchi e osservi”. Anche quando le coppie di astronauti stanno lavorando intensamente durante una passeggiata spaziale, lo splendido sfondo dietro lo Hubble e lo Shuttle cattura la loro attenzione. “Non stai soltanto contando quante volte hai avvitato quel bullone. Con la coda dell’occhio stai vedendo, per esempio, la Shark Bay nell’Australia occidentale. La osservi per bene, e questo non interferisce in alcun modo con il tuo lavoro. Un luogo fantastico, baie a pettine create da onde alte otto metri. Nel nostro Paese non esistono. Questo lavoro richiede grandi sforzi, ma quello che secondo è me veramente meraviglioso è la capacità di lavorare a livelli infinitesimali e allo stesso tempo galleggiare in altri mondi. Avere i piedi per terra ed essere eterici; essere entrambe le cose o sapere quando essere l’una e quando l’altra: penso che questo sia il modo giusto di vivere”.
Alla quinta passeggiata spaziale, Story e Jeff Hoffman devono sostituire l’unità elettronica Solar Array Drive, un’operazione che non è stata concepita per essere effettuata nello spazio. “C’erano delle minuscole viti sciolte, di due o tre millimetri, che in assenza di gravità non facevano che volteggiare nell’aria”. Con una sola mano, per di più coperta da un guanto, Story cominciò a inseguirle. Ci vollero tre ore. “Questo lavoro fu al limite delle mie possibilità. La vittoria più grande fu quando mi chiamarono dicendomi che l’unità stava funzionando. Avreste potuto sentirmi fin sulla Terra… Non c’era bisogno della radio!”.
Story conclude raccontando l’altro aspetto magico dello stare nello spazio: la vista dal finestrino. “Quando hai una pausa, corri al finestrino. È un momento emotivo; è come stare in chiesa”.
Ci vengono mostrati fantastici panorami di nuvole, correnti oceaniche, catene montuose, vulcani, barriere coralline, crateri meteoritici, delta di fiumi, laghi, uragani, dune di sabbia, canali dendritici di fiumi, tempeste e aurore. Dal racconto di Story è evidente che egli ha guardato a lungo e intensamente la Terra, e con grande affetto.
Vediamo la nostra galassia, la Via Lattea, di profilo nel cielo estivo. “Stiamo cominciando a pensare a tutti noi come ad abitanti di un solo pianeta”, dice Story. “Alla fine, ci considereremo creature del sistema solare. Al di là, c’è la nostra galassia. Quella è la nostra casa”.
E l’ultima diapositiva, un tramonto su Houston: “E questa è la mia casa. Torno dal lavoro e mi trovo di fronte a questo. Ovunque guardi… L’universo intero è la nostra benedizione. Tutto ciò di cui hai bisogno è l’atteggiamento di un bambino. Dobbiamo fermarci, toccare, apprezzare. Apprezzare ciò che ci è stato dato e il processo di cui siamo parte”.
Più tardi, ho intervistato Story al Centro Spaziale di Houston. Mentre salivamo con l’ascensore, egli è stato assediato da una mezza dozzina di turisti con varie richieste e commenti. Mi è rimasto impresso un bambino che guardava Story a bocca aperta, come se non credesse ai suoi occhi. Arriviamo al Club, una balconata privata affacciata sull’atrio di ingresso, riservata agli astronauti e gli ufficiali della NASA. Per cominciare, chiedo a Story di parlarmi della sua carriera medica, che egli ha praticato in modo intermittente: «Che genere di chirurgia praticavi?».
«Chirurgia post-traumatica: proiettili, coltelli, incidenti d’auto. Sono andato a finire là perché era un lavoro che facevo saltuariamente, due o tre giorni al mese. Prendevo chiunque passasse attraverso la porta».
Gli chiedo se questa è stata una conseguenza della sua passione per la meccanica (egli ha cominciato a lavorare all’età di cinque anni con i trattori nella fattoria di famiglia). «Era simile a quello che stavo facendo nell’aerospazio. Liste di controllo, strumenti, cose meccaniche», risponde. «Si tratta semplicemente di essere dei bravi idraulici. Tuttavia, è un lavoro importantissimo. Devi muovere il sangue, l’aria. Punto. Una volta che hai finito con l’aria e il sangue, cominci a intervenire nel lungo termine. È sopravvivenza pura e semplice». Story non pratica più la chirurgia, anche perché, mentre si stava esercitando nella camera sotto vuoto, ha avuto dei sintomi di congelamento.
Quale parte gioca la sua paura della morte nelle missioni spaziali? «Essa arriva quando le cinture di sicurezza sono state allacciate e il conto alla rovescia è cominciato», risponde; «Per me è semplicemente una paura boia. Non mi piace correre tanti rischi. Vorrei avere un veicolo sicuro come Apollo, ma me ne devo fare una ragione: questo è ciò che devo fare per salire lassù.
Ho molto caro ciò che ho qui. Non voglio perderlo. Non ho paura di morire, ma la vita mi piace tantissimo e ho ancora tantissime cose da fare. È un discorso pratico; ci sono delle cose da finire. Ora non sarebbe il momento giusto per morire».
Congetturiamo su cosa accada dopo la morte e quale sia il significato delle esperienze di quasi-morte. Story afferma: «Anche le esperienze di quasi-morte in cui non hai subito ferite ti costringono a riflettere intensamente. Cominci a riconsiderare le cose. Ma io sostengo che dovremmo sempre vivere in quel modo. Io vivo con la morte tutto il tempo. Non è qualcosa di morboso o di deprimente. È solo un fatto. Noi stiamo andando verso la morte».
E qual è la vita spirituale di un uomo che ha visto tantissime volte la Terra dallo spazio?
«È una nuova esperienza della natura. Ti rende più umile. È armonia. È la Terra e il cielo. Ed è magia, ciò che vedi con gli occhi, e caduta libera, gravità zero. E il lavoro che devo fare per avere questa esperienza, è qualcosa di estremamente ricco.
Non è che ho avuto un’epifania o qualcuno mi ha dato un libro dove sono scritte tutte queste cose. La mia ricerca spirituale è molto intensa. Qual è un’etica giusta? Quali dovrebbero essere i nostri obiettivi? Questa è la mia ricerca, e il 99% della mia motivazione. Ecco perché di notte studio materie umanistiche.
Sto cercando, e la mia indagine è in costante evoluzione. Devo andare fuori nel mondo, dentro la natura. Devo cercare Dio o gli dei. Quindi, lo spirito mi viene incontro, ma devo cercarlo. Definirlo. Non mi viene portato su un vassoio d’argento, sai. Devo lavoraci su, metabolizzarlo. Si capisce cosa voglio dire?».
Rido: «Sì», e chiedo se c’è qualche pratica spirituale che ha provato. No, nelle sue letture si è imbattuto in qualcuna di esse e ha riconosciuto cose che già fa, come il sogno lucido. E che ne pensa di una pratica formale di meditazione? Story sa che sono un’insegnante di meditazione buddista e nell’intervista ha acconsentito a parlare di queste cose. Non è sicuro riguardo una pratica formale, ma accenna alle meraviglie che riesce a ottenere con la sua mente, al fatto che è in grado di raggiungere una mente completamente silenziosa, una lavagna bianca. Spiego che la meditazione buddista è diversa, che si avvicina a ciò che deve aver fatto durante le camminate spaziali.
Story ci pensa su: «Ma in tutti questi discorsi lo sfondo contestuale è sempre presente. Se consideri il tiro con l’arco zen, la pittura zen, il Tao… Ho letto quei libri. Quando penso al mio lavoro sull’Hubble come a un’arte, quando penso di fare un’arte del mio lavoro, sono presenti anche quelle cose lì».
Gli domando se c’è qualche attività quotidiana che lo porti più a contatto con la sua spiritualità, qualcosa che fa consapevolmente e di cui altrimenti sentirebbe la mancanza: «Scrivere, comporre poesie, qualsiasi sforzo creativo è molto vicino alla spiritualità. L’esercizio fisico è un’altra cosa, il sonno… Ma essa è sempre presente. Tutto ciò che ha a che fare con lo spazio; un’immagine dello Hubble. È semplicemente fantastico! O quando sono immerso nella natura, in qualche modo, quando la natura sta operando su di me. Abbandonarmi a qualsiasi tipo di esperienza…
Lo scorso weekend mi trovavo in Arizona. Trovarmi in cima a una collina, correre per la boscaglia, il mesquite, tutto ciò che è in mezzo al deserto… La lepre del Nord America, i coyote e il cervo… E il tramonto lassù, incredibile. Le montagne, il loro colore risso vivo, come lo avevo visto dallo spazio. È portentoso.
La natura ha un ruolo importante, come la creatività. Penso che per essere davvero creativi, bisogna uscire un po’ da se stessi. Devi scendere in luoghi che non frequenti spesso. L’estetica è il modo in cui conosci la verità sulla natura. Non esiste solo la scienza. La bellezza fa parte del mio modo di percepire e conoscere il mondo».
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